6.5.08

r/008 - Fanale Rinder mod.130

Parte frontale di un vecchio fanale per moto.

Non so esattamente su che moto fosse montato, ma probabilmente una molto simile (se non uguale) a quella nella foto qui a destra. Questo fanale proviene dallo stesso edificio della granata (r/001), e come la granata è incompleto, in quanto mancante di tutta la coppa posteriore con l'alloggiamento per la lampadina. Il modello però è perfettamente riconoscibile dalla scritta in rilievo sul vetro (vedi immagine dettaglio).
Il vetro presenta varie rigature, ragione per cui probabilmente questo fanale si trovava in un cassetto tra le cianfrusaglie e non montato su una moto.
E' interessante notare il sistema ad incastro che fissa il proiettore e il vetro alla cornice, con l'uso di quattro gancetti metallici rimovibili a mano.

All'inizio della locomozione motorizzata (fine '800), il problema di dotare i mezzi di fari non si poneva minimamente. Era già abbastanza complicato guidare una vettura di giorno, con tutti gli imprevisti che poteva presentare un'automobile del 1890, per complicarsi la vita guidandola anche di notte. Le stesse strade inoltre non erano illuminate né asfaltate, quindi i pericoli alla circolazione erano insormontabili.Ragion per cui sulle prime vetture furono montati semplicemente i classici fanali delle carrozze a cavalli, magari costruiti da Henri e Francois Ducellier, che già dal 1830 a Parigi conducevano la loro attività di produzione di fari a olio per carrozze. Erano scatole di lamiera protette sul davanti da lastre di vetro, nelle quali ardeva una lampada ad olio o una candela: l’indispensabile per essere visti in caso di sosta.

Bastò poco, comunque, perché il faro delle carrozze a cavalli si rivelasse in tutta la sua inadeguatezza: bastò che la velocità delle automobili aumentasse, e soprattutto crescesse l’ansia dello chauffeur di usare la sua vettura in tutte, o quasi, le situazioni. Ecco la nascita del proiettore, cioè di apparecchi che mediante specchi o lenti convogliano il flusso luminoso della sorgente di luce entro un angolo ristretto e diretto in una determinata direzione.
La sorgente di luce non poteva più essere la candela, troppo debole. La soluzione fu trovata trasferendo in campo automobilistico una tecnologia sfruttata in campo militare e nelle miniere: l’utilizzo del gas acetilene (carburo d’idrogeno).
Il meccanismo funzionava per non più di quattro ore, dopodiché occorreva smontare e ripulire tutto, compresi gli specchi e gli schermi di vetro, le lenti, le superfici paraboliche, cioè tutto ciò che concorreva alla propagazione della luce, oltre che alla formazione della sorgente luminosa.

Come spesso succede, il progresso arrivò facendo ricerche in tutt’altro campo. Tanto per cominciare, non se ne poteva più della manovella: gli chauffeurs sognavano un avviamento automatico, ossia elettrico. Una volta che si riuscì a installare sull' automobile un impianto elettrico, diventò un gioco da ragazzi collegarvi il sistema di illuminazione.
Questo fu solo l'inizio dello sviluppo dei moderni fari elettrici. I problemi da superare furono molti, non ultima la necessità di non abbagliare con le proprie luci i mezzi provenienti nella direzione contraria.

Oggi il fascio luminoso che esce dalla parabola è già orientato: il vetro esterno, che fino a poco tempo fa doveva assicurare angoli di rifrazione ben precisi, non svolge più alcuna funzione ottica. E’ spesso soltanto uno schermo, perciò può essere inclinato come si desidera, cosa favorita anche dai nuovi materiali impiegati, per esempio il policarbonato.

DETTAGLI:
Modello: Rinder 130
Diametro: 13 cm
Peso: 210 gr

Provenienza:
Granada, primavera 2007. Anonima montagna di cianfrusaglie e avanzi di vita vissuta in un seminterrato maleodorante e polveroso.

Fonte per il testo: Storia dei fari, di Donatella Biffignandi (www.museoauto.it)

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